La tavola di Pasqua
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Due chiacchiere di Bon ton
Immagino che a Pasqua, come a Natale, si riuniscano a pranzo truppe multiculturali di famiglie accorpate. Immagino menù deliziosi e abbondanti, a base di sfizi e specialità locali, agnello, uova colorate, salami, culatelli, olive, formaggi, torte pasqualine, torte rustiche, pastiere e pecorelle di zucchero.
Naturalmente, non mancheranno colombe dolci e uova di cioccolato.
Bene. È la festa della primavera, del sole, dei colori. Perciò stenderei sulla tavola di Pasqua una tovaglia quadrettata, bianca e rossa come quelle delle antiche osterie. Di lino o di cotone non importa, basta che il tessuto sia fitto e spesso. I tovaglioli bianchi, di grosso lino bianco, a triangolo sul lato sinistro dei piatti, bianchi.
Quattro posate a destra e quattro a sinistra (se bastano), nell’ordine d’impiego. Poi bicchieri, uno per l’acqua, il più grande, quasi davanti al piatto e, a seguire verso destra, vino bianco, vino rosso, champagne. E poi fiori, ovunque: sul bordo di ogni piatto e nei vasetti, margheritine bianche o gialle, papaveri, fresie profumate cosparse sulla tovaglia, magari intervallate da verdissimi tralci di limone con tanto di frutti.
Fuori, si spera, il sole splenderà gioioso e aspetterà la nostra passeggiata del dopopranzo, immancabile dovere di un cuore saggio e salutista.
Fa bene alla digestione, diciamo, per tacitare il senso di colpa di essersi, come ogni volta, abboffati.
Il sole splende e ghigna ironico sulle nostre pance rigonfie, sui nostri passi pesanti, sul nostro fiatone.
Ma chi ce lo fa fare?
L’erbetta nuova, carezzata dal vento, è incantevole:
”Dai, che sarà mai, solo un minuto” sussurra.
E noi cediamo - al diavolo i sensi di colpa! - e ci abbandoniamo tra le sue braccia nel più tenero e fresco dei sonnellini.